In occasione dei 30 anni della nascita di Edizioni LIPA, la casa editrice del Centro Aletti, Alessio Curti dialoga con Maria Campatelli, Direttrice del centro e delle edizioni
Oggi sono 30 anni della casa editrice Lipa. Quale ispirazione e visione ha fatto nascere la casa editrice?
Lipa è un piccolo miracolo, per il riscontro che ha avuto in Italia e anche in altri Paesi. Un dato significativo di Lipa è che, con i suoi più di 150 libri, ha più di 320 traduzioni in altre lingue – certamente inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese, ma anche albanese, ceco, greco, lituano, russo, ucraino, sloveno, macedone, romeno, serbo, polacco, cinese, coreano, arabo…
Mi ricordo ancora – era un settembre pieno di sole – proprio su questo terrazzo pensavamo come sarebbe stato se avessimo avuto una nostra casa editrice. E subito ci venne anche il nome – Lipa – il tiglio. Eravamo quasi agli inizi del Centro Aletti, e frequentavamo tantissimo i Paesi del centro ed est Europa, e in queste frequentazioni vedevamo come il paesaggio fosse segnato dalla presenza del tiglio, soprattutto dove c’è un luogo di aggregazione: la piazza del paese, l’albero davanti alla casa all’ombra del quale ci si ritrova per chiacchierare… In alcuni Paesi slavi il tiglio era l’albero sacro, che poi quando questi popoli sono diventati cristiani è passato a significare l’albero della risurrezione… Giovanni Paolo II al momento della fondazione del Centro Aletti aveva dato uno scopo ben preciso al Centro Aletti: la ricerca di una fisionomia spirituale cristiana della cultura di un’Europa che in quel momento, dopo la caduta del muro di Berlino, aveva la possibilità di riscoprirsi di nuovo integra. Il nome slavo per una casa editrice piantata nel cuore di Roma ci sembrava un auspicio. Est e Ovest, alla ricerca di una fisionomia che non guarda nostalgicamente indietro, né semplicemente accetta il nuovo, ma lavora per una sua trasfigurazione.
Come vedi la differenza dalle altre case editrici?
Non so se è la differenza, ma avevamo molto chiaro anche che non avevamo una spiccata vocazione editoriale. Non ci interessava fare i libri per fare i libri, per poi dover continuamente rimpolpare il catalogo semplicemente per far tornare i conti. La casa editrice era strumentale ai contenuti che volevamo trasmettere. O erano riflessioni nostre, o traduzioni di testi, autori, che aiutavano a sviluppare questa riflessione. Infatti, per i nostri 30 anni, non abbiamo un grande catalogo con poco più di 150 libri che abbiamo detto prima. Perché li abbiamo fatti tutti noi: scritti, tradotti, corretti, impaginati, la grafica della copertina, fino, per molti anni, a portarli noi al magazzino del distributore.
Ma questa scelta di rimanere nel nostro, in ciò che ci caratterizza, sono certa che Dio l’ha benedetta sotto molti aspetti: dal lavoro nel cuore delle persone all’aspetto economico, perché ci siamo salvati dalle crisi che hanno investito le grandi case editrici. Il fatto di essere una casa editrice piccola ci ha salvato. Una cosa piccola, dinamica, e viva, con tante relazioni, per cui i libri si conoscono per passaparola, per la rete dei rapporti ecclesiali.
Quali sono stati i momenti e/o i lavori più significativi nel corso di questi 30 anni?
Certamente ci sono stati dei libri che hanno richiesto un maggiore impegno, sia di riflessione intellettuale che di impegno economico, ma non saprei se si può disgiungere il lavoro, perché tutto si intreccia.
Tutta l’opera del Centro Aletti è un tentativo di ricucire la comunicazione della fede. Che cosa vuol dire una riflessione teologica la cui origine non è nei testi, ma nella vita nuova che è comunicata nella Chiesa attraverso i sacramenti? Non si può fare la teologia disconnettendola dalle sue fonti vive – la liturgia, la spiritualità, la pietà, dove io attingo alla vita nuova che consiste nella partecipazione alla vita del Figlio di Dio.
La teologia ha a che fare con una visione, con la divinizzazione (cioè con lo Spirito e la lotta alle passioni), richiede una conversione della mente, ha a che fare con la vita della Chiesa, perché la vita nuova è una vita di comunione. La conoscenza, l’episteme, dipende dall’ascesi, dal “Cristo che vive in me”. Questo è qualcosa di inusuale alle nostre orecchie. In un certo senso tutti dobbiamo diventare teologi, che a questo punto diventa non materia per specialisti. Certo, la teologia ha un aspetto cognitivo, quindi ci sarà chi si dedica a farla rispondendo a una vocazione. Ma siccome è la spiegazione e la ricerca delle parole appropriate, dei sistemi di concetti corrispondenti il più possibile alla fede e all’esperienza della Chiesa, è tutto organico – il testo esigente intellettualmente, la riflessione pastorale e il libretto divulgativo. Dire l’uomo, Teologia pastorale, Cristiani si diventa, I Diari di Schmemann, Comunione e alterità di Zizioulas, L’arte di purificare il cuore e Vita e detti di san Porfirio o la traduzione dell’ufficio liturgico bizantino, l’Anthologhion di tutto l’anno, non sono poi così distanti. Possono esserlo come registro comunicativo, ma non come humus da cui nascono.
Quale missione specifica può svolgere ancora oggi Lipa nella Chiesa e nel mondo di oggi?
In questi decenni abbiamo incontrato un numero crescente di persone che, osservando come tutto continua a franare, a sgretolarsi, hanno cominciato a domandarsi sempre più apertamente se lo stile di vita della comunità cristiana corrisponda a ciò di cui oggi la Chiesa ha bisogno.
Quando cambiano i tempi e dobbiamo fare una sintesi, bisogna capire quello che è importante e quello che si può trascurare. Questo non si può fare dentro ad una sola tradizione.
Se prendiamo consapevolezza che una tradizione sviluppa maggiormente un aspetto che nella nostra è più in ombra, la conoscenza dell’altro può portare solo ad una maggiore ricchezza e ad una più grande comprensione delle cose. Questo credo valga al massimo grado nella Chiesa, dove tutto ciò che è di Cristo (a prescindere da quale tradizione appartenga) è nostro e contribuisce ad approfondire la sua conoscenza e a muovere il cuore verso di Lui. E contribuisce a conoscerlo in maniera più corretta. Vjačeslav Ivanov (un altro autore su cui abbiamo scritto) diceva che l’uomo è uno specchio vivo. Conosce le cose in maniera riflessa. Per questo ha bisogno di un altro specchio, speculum speculi, per raddrizzare l’immagine che lui vede. La verità viene fuori in modo più pieno solo se è contemplata in un altro. Questa cosa è fondamentale oggi, quando crollano i “mondi cristiani”. L’aratro della storia scava le zolle, sovverte tutto e c’è da capire qual è il seme buono da gettare.
Quindi, proprio quando cadono questi “mondi cristiani”…
Oggi, proprio quando cadono questi “mondi cristiani”, è il tempo in cui tessere delle reti tra i credenti. È il tempo della comunione nella fede, che vuol dire, certamente, negli stessi dogmi e nelle stesse verità, ma prima ancora nella fede con cui crediamo, che ci rende partecipi alle cose significate (e non semplicemente ci dà informazioni su di esse), e che quindi salva l’evento ecclesiale dal trasformarsi in un prodotto dell’ideologia.
Una comunione che ci aiuta a pensare con la mente di Cristo, cioè in comunione con la mente della Chiesa, il che vuol dire pensare con la tradizione. E la tradizione non è semplicemente aumentare il numero degli autori o delle citazioni patristiche, ma significa trovare le manifestazioni in contesti geografici e storici diversi della vita che Dio vuole comunicare a noi esseri umani, in modo che anche noi possiamo essere trasformati da questa verità ora.
Mi sembra che tutto il lavoro di Lipa, cucendo la tradizione cristiana dell’oriente (dei vari orienti: bizantino, siriaco, copto…) e dell’occidente con la cultura di oggi, desideri mettersi al servizio proprio di questo.