Approfondimento delle letture della liturgia della II Domenica di Pasqua, Anno A
La prima apparizione di Cristo risorto in Giovanni si svolge in un giardino, ed è su uno sfondo nuziale.
Maddalena è immagine della comunità che cerca il Signore senza sosta, che lo riconosce nel suo amore di appartenenza.
Oggi il Vangelo ci fa vedere il secondo incontro col Risorto, che avviene in uno spazio chiuso, quello della comunità in mezzo a un mondo ostile e nemico, che sta a porte chiuse.
La violenza e l’aggressività spingono a ritirarsi, a nascondersi.
Infatti, Is 26,20-21dice: “Va’, popolo mio, entra nelle tue stanze e chiudi la porta dietro di te.
Nasconditi per un momento, finché non sia passato lo sdegno.
Perché ecco, il Signore esce dalla sua dimora”.
Il Signore scende, viene lì dove l’uomo è. Infatti Dio in Cristo si è fatto nostro prossimo.
Efrem il Siro dice che Cristo ci ha “indossati”. Dio entra lì dove si trova l’uomo.
I suoi discepoli hanno chiuso la porta, pensando che la porta li avrebbe protetti dai nemici di quel mondo religioso duro, violento, che ha crocifisso il Signore, il loro maestro.
Invece Cristo nel Vangelo non entra per la porta, è già con loro, è il loro centro, è “in mezzo a loro”.
E lì si farà notare e richiamerà l’attenzione alla sua presenza.
Solo che la paura spinge l’uomo a essere agitato dal pensiero su come difendersi. Questo pensiero ha portato i discepoli a essere così prigionieri del loro modo di pensare, che non hanno neanche immaginato che il Signore potesse essere in mezzo a loro.
È interessante che né Maddalena né i discepoli di Emmaus hanno riconosciuto la presenza del Signore. Infatti, Maddalena l’ha preso per il giardiniere e i due di Emmaus per uno straniero.
Come diceva don Dolindo, “L’agitazione ci innesta in un modo di pensare che ci impedisce di poter leggere la sua presenza”.
La paura fa agitare tutta la nostra esistenza, perché questa esistenza trema per il fatto che è fondata solo su noi stessi.
Infatti, appena l’uomo ha interrotto la relazione con Dio, ha provato la paura (cf Gen 3,10).
Quando l’esistenza non è fondata nella relazione dalla quale si riceve la vita e l’esistenza, siamo nella schiavitù della paura (cf Eb 2,15).
Non è la natura umana che ci dà la vita. La vita che ci viene dalla natura umana è destinata a perire. La vita è dalla relazione, noi siamo fondati nella relazione, siamo stati creati attraverso una parola che ci è stata rivolta e dalla relazione con la persona che ci rivolge la parola, da questa relazione, attingiamo l’esistenza e la vita.
Quando questo cade nell’oblio e ci appoggiamo su noi stessi, cominciamo a sperimentare l’agitazione e la paura e un modo di pensare che non è in grado di riconoscere Colui che ci chiama.
Così ci ritroviamo molto più familiari alla mentalità di questo mondo, dove conta la forza, il saper vincere, l’imporsi con la potenza e la grandezza, come una specie di risposta immaginata dalla paura, molto realisticamente percepita al fondo dell’esistenza.
Nell’attesa del Messia si era infiltrata questa mentalità, tanto che si attendeva un Messia potente, un re di Israele invincibile. Infatti, ancora agli inizi degli Atti leggiamo: “È questo il tempo in cui tu restaurerai il regno di Israele?”. Si attendeva cioè questo re potente.
Tanto è vero che già in Gv 6,15 è detto: “Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.”
I discepoli lo lasciano solo e prendono la barca e se ne vanno tristi, ma il mare era agitato. Siamo di nuovo all’agitazione, loro sono delusi perché non ha accolto la possibilità di essere proclamato re.
Lui viene di notte verso di loro e loro hanno paura, ma egli si rivolge a loro con un saluto simile a quello che utilizza dopo la risurrezione: “Sono io, non abbiate paura!” (Gv 6,20).
Anche i discepoli di Emmaus non potevano accettare che il Messia tanto atteso fosse finito sulla croce.
Ma anche nel gruppo chiuso del brano di oggi c’è una delusione evidente tra i discepoli, che è già annunciata quando Cristo si è ritirato in solitudine, invece di ascoltare la volontà del popolo.
La volontà del popolo è una grande trappola. È per la paura per se stessi che si segue l’opinione pubblica.
Quando Cristo muore in croce, viene dichiarato re, persino per iscritto, e questa è la vera regalità. Ma per poterla comprendere e poter pensare che il Crocifisso dischiude il vero senso del regno e della regalità, bisogna che la nostra mente passi una sorta di Pasqua, di crocifissione, perché possa ricevere una vita tale che si esprime al modo della crocifissione, come dono totale.
Ma, senza la partecipazione a questa vita, non è possibile capire che il Crocifisso è il vincitore, come non è possibile capire che il servo è più importante del padrone.
Il nostro modo di pensare secondo l’uomo vecchio deve essere crocifisso con Cristo (cf Rm 6,6) per accogliere, in questa stretta unione con la crocifissione di Cristo, il suo respiro.
Giovanni precisa che Gesù morendo ha consegnato il respiro (cf Gv 19,30).
Anche oggi ha soffiato sugli apostoli dicendo: “Ricevete lo Spirito Santo”. Infatti, anche negli Atti Luca precisa che Cristo aveva detto agli apostoli di rimanere a Gerusalemme fino a quando non avrebbero ricevuto lo Spirito Santo (cf At 1,4.8), perché solo ricevendo la sua stessa vita, comunicataci dallo Spirito Santo, si comincia anche a conoscere – anzi, si comincia a riconoscerlo nella nostra vita, negli eventi che ci capitano, nella storia che viviamo, si comincia ad avere il suo modo di pensare, la sua mente (cf 1Cor 2,16).
Allora si cominciano a leggere gli eventi attraverso la sua presenza, attraverso la partecipazione al suo itinerario.
Quanti santi hanno detto: “Beati quando si è simili a Cristo”.
E non si tratta di sforzarsi per imitarlo, perché questa è una grande illusione.
Bisogna lasciarsi potare dal Padre. Ma è la storia, gli eventi, il vissuto che ci conformano a Cristo.
Un buon esempio è Tommaso, un discepolo che ci teneva molto a Cristo, un grande amico di Cristo. Infatti, Giovanni ci ricorda che, quando Cristo decide di andare in Giudea dove lo volevano lapidare, Tommaso disse agli altri discepoli: “Andiamo anche noi a morire con lui” (Gv 11,16).
Per Tommaso la cosa più grande era morire con l’amico e per l’amico. E Cristo, infatti, è morto per noi.
Ma Tommaso non riusciva a cogliere che morire per gli altri per amore, con amore, amando veramente, vuol dire distruggere la morte, perché si vive una vita che la morte non riesce a uccidere, cioè l’amore (cf 1Cor 13,8).
Tommaso capisce che la cosa più grande è dare la vita, ma non riesce a cogliere che questo modo vuol dire passare la morte, entrare in un’esistenza che la morte non riesce più a dominare.
Perciò Cristo gli dice: Diventa credente, non essere più incredulo.
Credere è avere la fede. Ma, come dice Ef 3,17: “Che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori” e noi veniamo radicati e fondati nella carità, proprio in quell’amore che fa sì che la nostra esistenza possa diventare un dono.
Ma chi si dona, si dona in un modo che passa la morte. Ed è lì che ci possiamo spaventare, ritirarci e chiuderci in sé, è lì che nasce il male e il giudizio sugli altri.
Cristo abita in noi, per la fede noi siamo il suo corpo (cf 1Cor 12,27).
Noi siamo il corpo di Cristo. Il mondo ci può essere molto ostile. Anche un certo mondo della religione ci può essere ostile. Ma proprio tale esperienza, le condizioni concrete della nostra vita, gli eventi che viviamo tengono viva la fede, la nostra partecipazione alla persona di Cristo che ci fa pensare con Lui e leggere la storia con Lui, e non alla maniera di questo mondo.
SEMI è la rubrica del Centro Aletti disponibile ogni venerdì.
Ogni settimana, oltre all’omelia della domenica in formato audio, sarà disponibile sul sito LIPA un approfondimento delle letture della liturgia eucaristica domenicale o festiva.