Approfondimento delle letture della liturgia
Profundización de las lecturas de la liturgia
Poglobitev Božje besede
Nel Tempro ordinario, normalmente la seconda lettura segue un suo itinerario, sganciato dalla prima lettura e dal Vangelo.
In questo periodo abbiamo dei passi molto forti della Lettera ai Romani.
La volta scorsa abbiamo contemplato Cristo che si dona a noi quando eravamo nemici e, per mezzo della sua morte, ci unisce al Padre e ci fa partecipi della sua vita.
Paolo dice: “Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita” (Rm 5,10).
Il brano di oggi è molto complesso.
Paolo fa un accostamento tra Adamo e Cristo.
Qualche midrash rabbinico parlava di un nesso tra il peccato di Adamo, la sua ingiustizia e la grandiosa, generosa risposta della giustizia di Dio.
La morte ha colpito l’uomo come una punizione, che si protrae attraverso le generazioni, fino alla fine dei tempi.
Così diceva il midrash.
Ma Dio trasmetteva molto più il favore divino per le generazioni delle generazioni, fino alla fine delle generazioni.
Paolo non accosta semplicemente il peccato di Adamo e Dio, ma accosta l’uomo Adamo, per mezzo del quale la morte è entrata nel mondo e l’uomo Gesù, Cristo.
“Come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato…” (Rm 5,12).
Paolo costata la dimensione universale del peccato, perché tutti gli uomini muoiono.
La visione del Creatore era invece quella dell’uomo immortale.
“Dio ha creato l’uomo per l’immortalità,
lo ha fatto immagine della propria natura” (Sap 2,23).
Allora non è difficile constatare che qualcosa è avvenuto e l’uomo è divenuto mortale come le altre creature.
Diventa molto curioso, spiritualmente parlando, che la morte sia entrata nel mondo per un preciso atteggiamento del diavolo: l’invidia.
L’invidia rimane la fonte dalla quale il tentatore costantemente attinge.
“Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono” (Sap 2,24).
Ciò significa che la morte è la testimone che l’uomo si è affidato a un inganno.
Quando si dice che il peccato ha isolato l’uomo e l’uomo si trova da solo, non è tutta la verità. No, colui che lo ha ingannato, per invidia, lo domina proprio attraverso la morte, cioè attraverso la paura per se stesso. Questa paura viene dalla paura di sparire, di essere cancellato, di tornare polvere della terra, dunque di morire, di non esserci più, perché c’è “colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo” che ci tiene in schiavitù per tutta la vita (cf Eb 2,14-15).
Infatti, il Salmista descrive la vera situazione di ogni uomo: “Ecco, nella colpa io sono nato, nel peccato mi ha concepito mia madre” (Sal 51,7).
“Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” (Rm 3,23).
È facile costatare la dimensione universale del peccato, perché le tombe confessano e rendono testimonianza proprio di questa dimensione.
La morte testimonia che c’è un nuovo stato nell’uomo che lo fa peccare, e di conseguenza morire.
È avvenuto qualcosa che ha creato un nuovo stato. E questo nuovo stato in cui si trova l’uomo lo rende peccatore, lo fa peccare.
In questo contesto, non è affatto sufficiente sforzarsi di fare il bene. Infatti, anche se uno si sforza, non è questo il vero bene, perché non manifesta l’altro, ma solo se stesso, il proprio impegno, sacrificio e bravura.
Tanto è vero che poi, immediatamente, si crea il gioco di chiedere ammirazione e di sentirsi più degli altri, di confrontarsi con gli altri, di paragonarsi… E tutto ciò ha a che fare con l’invidia. Tutto ciò è “privo di gloria”, cioè non è in grado di manifestare Dio come dono gratuito, cioè come Dio vero, che è amore (cf 1Gv 4, 8).
“Non c’è chi compia il bene, non ce n’è neppure uno” (Rm 3,12). Dunque, la dimensione universale del peccato è ovvia proprio a causa della morte.
A Paolo sta a cuore il confronto tra Ebrei e Greci.
Gli Ebrei con la Legge di Mosè e i Greci con la filosofia e la sapienza di una etica elevata.
“Giudei e Greci, tutti sono sotto il dominio del peccato” (Rm 3,9).
Nemmeno la legge è veramente una radicale novità in questo stato dell’uomo-Adamo, e neanche una filosofia elevata.
La legge fa scoprire il peccato, ma non è in grado di cambiare la posizione dell’uomo né riguardo al peccato né riguardo alla morte (cf. Gal 3, 21). Così come un alto sapere ideale dell’uomo non cambia la sua situazione, perché non è in grado di superare il peccato e la morte.
Infatti, un tale modo di pensare e di agire fa parte esattamente di quella condizione di Adamo, che cerca in tutti i modi di superare il suo stato. È tutto una finzione su come si diventa buoni e bravi, su come si corrisponde ad un ideale prefissato, sia esso religioso, filosofico, o psicologico. Alla fine, si manifesta anche attraverso i singoli atti ciò che apparirà alla fine, che si partecipa ad una realtà che universalmente lega l’uomo ad un’esistenza che fondamentalmente lo orienta tutto a superare la morte, a rimanere, a imporsi sulla paura, a farsi notare, a non sparire in nulla, ecc.
A cosa ha portato una cultura che abbelliva l’uomo, che lo dipingeva perfetto nelle forme e insuperabile nella forza – sia quella intellettuale, che quella fisica –, che lo rendeva perfetto secondo la forma e apparenza? Dove è andata a finire una tale impostazione culturale? Cosa ha prodotto? Cosa lascia dietro di sé?
Dove e in che cosa consiste l’epilogo di una cultura immaginaria della religione, in stile barocco, che faceva volare donne e uomini in cielo, molto in alto, sopra le nubi?
Cosa ha prodotto il Barocco di significativo per la vera vita? Basta un superficiale sguardo alla storia per costatarlo. Tali correnti hanno un denominatore comune: mi impegno, mi do da fare e, con l’aiuto di Dio, salirò in alto e supererò così questa tragedia di Adamo e della sua discendenza.
Ma questo modo è tipico dello stato dell’uomo che si è pienamente manifestato in Adamo e che è destinato a morire.
Non sta forse morendo una certa impostazione della cultura e dell’arte, e dunque un modo di essere, di pensare e di agire?
Non sta forse morendo anche un modo di essere Chiesa? Un modo molto legato a quei moduli appena menzionati?
Paolo invece fa vedere, proprio utilizzando la parola typos, una consonanza tra Adamo e Cristo in quanto tutti e due sono l’inizio di una diversa esistenza umana.
Adamo quella della morte e del peccato, Cristo quella della vita come grazia, come dono, come giustificazione, come corretta relazione con la fonte della vita.
Paolo ha fretta di evidenziare che tra Adamo e Cristo c’è un’enorme differenza.
Lui dice: “Ma il dono di grazia non è come la caduta”, infatti “molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti” (Rm 5,15).
Si tratta del dono di essere uomini al modo di Cristo, secondo l’amore di Figli che il Padre “versa nei nostri cuori” (Rm 5,5). Questo non è un dono che abbiamo conquistato con una nostra proiezione in avanti in un mondo ideale e perfetto, ma che abbiamo semplicemente ricevuto tramite l’accoglienza.
L’accoglienza del dono è la morte dell’invidia. Grazie ad una tale accoglienza, il male non ha più potere su di noi.
“Chiunque è stato generato da Dio non commette peccato, perché un germe divino rimane in lui, e non può peccare perché è stato generato da Dio” (1Gv 3,9).
La differenza tra Adamo e la novità che comincia con Cristo è davvero assoluta.
SEMI è la rubrica del Centro Aletti disponibile ogni venerdì.
Ogni settimana, oltre all’omelia della domenica in formato audio, sarà disponibile sul sito LIPA un approfondimento delle letture della liturgia eucaristica domenicale o festiva.
En el tiempo ordinario, normalmente la segunda lectura sigue un itinerario propio, desligado de la primera lectura y del evangelio.
En este período tenemos pasajes muy fuertes de la carta a los Romanos.
La vez pasada contemplamos a Cristo que se dona a nosotros cuando éramos enemigos y por medio de su muerte, nos une al Padre y nos hace partícipes de su vida.
Pablo dice: “Si, cuando éramos enemigos, fuimos reconciliados con Dios por la muerte de su Hijo, ¡con cuanta más razón, estando ya reconciliados, seremos salvados por su vida! (Rm 5,10).
El pasaje de hoy es muy complejo.
Pablo hace una yuxtaposición entre Adán y Cristo.
Un midrash rabínico hablaba de una conexión entre el pecado de Adán, su injusticia y la grandiosa, generosa respuesta de la justicia de Dios.
La muerte ha golpeado al hombre como un castigo, que se hereda de generación en generación hasta el fin de los tiempos. Así decía el midrash.
Pero Dios transmitía mucho más el favor divino de generación en generación hasta el fin de los tiempos.
Pablo no yuxtapone simplemente el pecado de Adán y Dios, sino yuxtapone el hombre Adán, por medio del cual la muerte entró al mundo y el hombre Jesús, Cristo.
“Por lo tanto, lo mismo que por un hombre entró el pecado en el mundo, y por el pecado la muerte, y así la muerte se propagó a todos los hombres, porque todos pecaron…” (Rm 5,12).
Pablo constata la dimensión universal del pecado, porque todos los hombres mueren.
La visión del Creador era en cambio aquella del hombre inmortal.
“Dios creó al hombre incorruptible y lo hizo a imagen de su propio ser” (Sabiduría 2,23).
Entonces no es difícil constatar que algo pasó y el hombre se volvió mortal como las otras criaturas.
Se vuelve muy curioso, hablando espiritualmente, que la muerte haya entrado en el mundo por una actitud precisa del diablo: la envidia.
La envidia permanece la fuente de la cual el enemigo constantemente se aprovecha.
“Mas por envidia del diablo entró la muerte en el mundo, y la experimentan los de su bando” (Sabiduría 2,24).
Esto significa que la muerte es el testimonio que el hombre se ha confiado a un engaño.
Cuando se dice que el pecado ha aislado al hombre y el hombre se encuentra sólo, no es la verdad completa. No, aquel que lo ha engañado, por envidia, lo domina justo a través de la muerte, es decir, por medio de la preocupación por uno mismo.
Este miedo viene del miedo de desaparecer, de ser cancelado, de volverse polvo de tierra, es decir, de morir, de dejar de existir, porque está “aquel que tiene el poder de la muerte, es decir el diablo” que nos mantiene en la esclavitud para toda la vida (cf Heb 2,14-15).
De hecho, el salmista describe la situación verdadera de cada hombre: “en la culpa nací, en pecado me concibió mi madre” (Sal 51,7).
“Todos han pecado y están privados de la gloria de Dios” (Rm 3,23).
Es fácil constatar la dimensión universal del pecado, porque las tumbas confiesan y dan testimonio justo de esta dimensión.
La muerte testimonia que hay un nuevo estado en el hombre que lo hace pecar, y como consecuencia morir.
Ha sucedido una cosa que ha creado un nuevo estado. Y este estado en cual se encuentra el hombre lo hace pecador, lo hace pecar.
En este contexto no es en absoluto suficiente esforzarse para hacer el bien. De hecho, incluso si uno se esfuerza, esto no es el verdadero bien, porque no se manifiesta el otro, sino solo uno mismo, el propio esfuerzo, sacrificio y grandeza.
Es tan verdadero que después, inmediatamente, se crea el juego de pedir admiración y de sentirse mejor que los demás, de confrontarse con los demás, de compararse… Y todo esto tiene que ver con la envidia. Todo aquello está “privado de gloria”, es decir, no está en grado de manifestar Dios como don gratuito, es decir, como Dios verdadero, que es amor (cf 1 Jn 4,8).
“No hay uno que cumpla el bien, no hay ni siquiera uno” (Rm 3,12). Entonces, la dimensión universal del pecado es obvia justo por causa de la muerte.
La confrontación entre hebreos y griegos estaba muy presente en el corazón de Pablo.
Los hebreos con la ley de Moisés y los griegos con la filosofía y la sabiduría de una ética elevada.
“Judíos y griegos, todos están bajo el dominio del pecado” (Rm 3,9).
Ni la ley es una verdadera novedad radical en este estado del hombre, Adán, y ni siquiera una filosofía elevada.
La ley hace descubrir el pecado, pero no está en grado de cambiar la posición del hombre ni respecto al pecado, ni respecto a la muerte (cf. Gal 3,21).
Así como un alto conocimiento ideal del hombre no cambia su situación porque no está en grado de superar el pecado y la muerte.
De hecho, un tal modo de pensar y de actuar forma parte, exactamente, de aquella condición de Adán que busca todos los modos de superar su estado. Es todo un fingimiento, sobre cómo se puede volver grandes y buenos, sobre cómo se corresponde a un ideal prefijado, sea ese religioso, filosófico o psicológico.
Al final se manifiesta también, por medio de actos singulares, aquello que aparecerá al final que se participa a una realidad que universalmente une el hombre a una existencia que fundamentalmente lo orienta todo a superar la muerte, a permanecer, a imponerse al miedo, a hacerse notar, a no permanecer escondido en nada, etc.
¿A dónde ha llevado una cultura que embellecía al hombre, que lo pintaba perfecto en las formas e insuperable en la fuerza, sea aquella intelectual, que aquella física, que lo hacía perfecto según la forma y la apariencia? ¿En dónde ha terminado una configuración cultural como esta? ¿Qué ha producido? ¿Qué ha dejado detrás de ella?
¿En dónde y en qué cosa consiste el epílogo de una cultura imaginaria de la religión, en estilo barroco, que hacía volar en el cielo a mujeres y hombres, muy en lo alto, sobre las nubes?
¿Qué ha producido el barroco de significativo para la verdadera vida? Basta una mirada superficial de la historia para constatarlo. Tales corrientes tienen un denominador común: me esfuerzo, me entrego al hacer y, con la ayuda de Dios, subiré hacia lo alto y superaré así esta tragedia de Adán y su descendencia.
Pero este modo es típico del estado del hombre que se ha manifestado plenamente en Adán que está destinado a morir.
¿No está tal vez muriendo un modo de ser Iglesia? ¿Un modo muy ligado a aquellos modelos apenas mencionados?
Pablo en cambio hace ver, justo utilizando la palabra “typos”, una consonancia entre Adán y Cristo en cuanto ambos son el inicio de una existencia humana diversa.
Adán aquella de la muerte y del pecado, Cristo aquella de la vida como gracia, como don, como justificación, como correcta relación con la fuente de la vida.
Pablo tiene prisa de evidenciar que entre Adán y Cristo hay una enorme diferencia.
Él dice: “pero el don de gracia no es como la caída”, de hecho “mucho más la gracia de Dios y el don concedido en gracia solo del hombre Cristo Jesús se han vertido en abundancia sobre todos” (Rm 5,15).
Se trata del don de ser hombres al modo de Cristo, según el amor de Hijos que el Padre “vierte en nuestros corazones” (Rm 5,15). Esto no es un don que hemos conquistado con una previa proyección nuestra de un mundo ideal y perfecto, sino que lo hemos simplemente recibido por medio de la acogida. La acogida del don en la muerte de la envidia. Gracias a una tal acogida el mal ya no tiene poder sobre nosotros.
“Todo el que ha nacido de Dios no comete pecado, porque su germen permanece en él y no puede pecar, porque ha nacido de Dios” (1Jn 3,9).
La diferencia entre Adán y la novedad que comienza con Cristo es de verdad absoluta.
SEMILLAS es una publicación del Centro Aletti disponible todos los viernes. Cada semana, además del audio de la homilía dominical, estará disponible en el sitio de LIPA un comentario a las lecturas de la Liturgia del Domingo, como así también a las lecturas de la semana.
V času med letom drugo berilo običajno sledi svoji poti, brez povezave s prvim berilom in evangelijem.
V tem času imamo zelo močne odlomke iz Pisma Rimljanom.
Prejšnjič smo gledali Kristusa, ki se nam daruje, ko smo bili še grešniki in nas po svoji smrti združi z Očetom ter nas stori deležne pri svojem življenju.
Pavel pravi: »Kajti če smo se po smrti njegovega Sina spravili z Bogom, ko smo bili še sovražniki, bomo veliko bolj rešeni po njegovem življenju, odkar smo prišli do sprave« (Rim 5,10).
Današnji odlomek je zelo kompleksen.
Pavel primerja Adama in Kristusa.
Neki rabinski midraš je govoril o povezavi med Adamovim grehom in njegovo nepravičnostjo ter velikim in velikodušnim odgovorom Božje pravičnosti.
Smrt je zadela človeka kot kazen in se nadaljuje skozi generacije, vse do konca časov.
Tako je pripovedoval midraš.
Bog pa izkazuje še večjo naklonjenost iz roda v rod, vse do konca generacij.
Pavel ne primerja zgolj Adamovega greha in Boga, ampak primerja človeka Adama, po katerem je prišla smrt na svet, s človekom Jezusom Kristusom.
»Kakor je torej po enem človeku prišel na svet greh in po grehu smrt in je tako smrt prišla na vse ljudi, ker so vsi grešili …« (Rim 5,12).
Pavel vidi univerzalno razsežnost greha, saj vsi ljudje umrejo.
Stvarnikova vizija pa je bila nesmrtni človek.
»Toda Bog je ustvaril človeka za nepropadljivost in ga naredil kot podobo lastne izjemnosti« (Mdr 2,23).
Zato ni težko videti, da se je nekaj zgodilo in je človek postal umrljiv kot vsa druga bitja.
Duhovno rečeno postane zelo zanimivo, da je prišla smrt na svet po točno določeni drži hudiča: po zavisti.
Zavist ostaja vir, iz katerega hudič nenehno zajema.
»Smrt je stopila v svet po hudičevi nevoščljivosti, izkusijo pa jo tisti, ki sodijo v njegov delež« (Mdr 2,24).
To pomeni, da smrt pričuje, da se je človek izročil prevari.
Ko rečemo, da je greh osamil človeka in se je človek znašel sam, ni vsa resnica. Ne. On, ki ga je prevaral iz zavisti, ga obvladuje prav s smrtjo, to je s strahom zase. Ta strah izhaja iz strahu pred izginotjem, izbrisom, vrnitvijo v prah zemlje, torej strah pred smrtjo, pred tem, da ga ne bi bilo več. Obstaja namreč ta, ki ima smrtonosno oblast, to je hudič, ki nas drži v sužnosti skozi vse življenje (prim. Heb 2,14-15).
Psalmist opisuje resnično situacijo vsakega človeka: »Glej, v krivdi sem bil rojen, v grehu me je spočela moja mati« (Ps 51,7).
»Vsi so grešili in so brez Božje slave« (Rim 3,23).
Hitro opazimo univerzalno razsežnost greha, kajti grobovi govorijo in pričajo prav o tej razsežnosti.
Smrt pričuje, da obstaja neko novo stanje človeka, zaradi katerega človek greši in zato umre.
Zgodilo se je nekaj, kar je ustvarilo to novo stanje. In to novo stanje, v katerem se je znašel človek, ga naredi za grešnika; zaradi tega stanja greši.
V tem kontekstu še zdaleč ni dovolj, da se človek trudi delati dobro. Čeprav se namreč kdo trudi, to ni resnično dobro, ker ne razodeva drugega, ampak le sebe, svoj trud, svojo požrtvovalnost in pridnost.
Takoj nato pa se znajde v igri iskanja občudovanja in želje, da bi bil več kot drugi, v igri primerjanja z drugimi … Vse to pa ima kaj opraviti z zavistjo. Vse to je »brez Božje slave« (Rim 3,23), kar pomeni, da ne zmore razodeti Boga kot zastonjskega daru, ne more razodeti pravega Boga, ki je ljubezen (prim. 1 Jn 4,8).
»Ni ga, ki bi delal dobro, ni ga, niti enega« (Rim 3,12). Zato je univerzalna razsežnost greha očitna prav zaradi smrti.
Pavlu je pri srcu primerjava med Judi in Grki.
Judje z Mojzesovo Postavo in Grki s filozofijo in modrostjo vzvišene etike.
»Vsi, Judje in Grki so v oblasti greha« (Rim 3,9).
V tem stanju človeka-Adama nista niti postava niti neka vzvišena filozofija kaka radikalna novost.
Postava razkrije greh, ne zmore pa spremeniti človekove drže ne do greha in ne do smrti (prim. Gal 3,21). Prav tako tudi človekovo idealno védenje ne spremeni njegovega položaja, saj ne zmore premagati greha in smrti.
Takšen način razmišljanja in delovanja je namreč del tistega Adamovega položaja, ki hoče na vsak način preseči svoje stanje. Vse to je pretvarjanje tega, kako postati dober in priden, kako ustrezati idealu, pa naj bo ta religiozen, filozofski ali psihološki. Navsezadnje se tudi skozi posamezna dejanja razodene to, kar se bo pokazalo na koncu: da je človek udeležen pri resničnosti, v celoti vezani na bivanje, ki ga v temelju povsem usmerja k temu, da premaga smrt, da ostane, da se upre strahu, da je opazen, da ne izgine v nič itd.
Do česa je pripeljala kultura, ki je olepševala človeka, ga je slikala v popolnih oblikah in nepremagljivi moči – tako razumski kot telesni –, ga naredila popolnega po obliki in izgledu? Kam je pripeljal takšen kulturni pristop? Kaj je ustvaril? Kaj pušča za seboj?
Kje in v čem je epilog namišljene kulture religije, v baročnem slogu, kjer ženske in moški letijo v nebo, zelo visoko, nad oblake?
Kaj je prinesel barok pomenljivega za resnično življenje? Že bežen pogled na zgodovino je dovolj, da to opazimo. Takšni tokovi imajo skupni imenovalec: trudim se, prizadevam si, z Božjo pomočjo se bom povzpel visoko in tako premagal to tragedijo Adama in njegovega potomstva.
Toda ta način je značilen za stanje človeka, ki se je v polnosti razodel v Adamu in mu je usojeno umreti.
Mar ne umira določen pristop do kulture in umetnosti ter s tem način bivanja, razmišljanja in delovanja?
Mar ne umira tudi določen način biti Cerkev? Način, ki je zelo povezan s pravkar omenjenimi oblikami?
Pavel pa z uporabo besede typos pokaže na skladnost med Adamom in Kristusom, v kolikor sta oba začetnika nekega drugačnega človeškega bivanja: Adam bivanja smrti in greha, Kristus pa življenja kot milosti, daru, opravičenja, pravega odnosa do izvira življenja.
Pavlu se mudi pokazati, da je med Adamom in Kristusom ogromna razlika.
Pravi: »Vendar pa z milostnim darom ni tako kakor s prestopkom,« kajti »v veliko večji meri sta se na mnoge razlila Božja milost in dar, po milosti enega človeka, Jezusa Kristusa« (Rim 5,15).
Gre za dar biti ljudje na Kristusov način, po ljubezni sinov, ki jim Oče »v srca vliva ljubezen« (Rim 5,5). Tega daru nismo osvojili s svojo projekcijo v prihodnost v nek idealen in popoln svet, ampak smo ga preprosto dobili in sprejeli.
Ko sprejmemo dar, umre zavist, in zlo nima več moči nad nami.
»Kdor je rojen iz Boga, ne ravna grešno, saj v njem ostaja njegovo seme. Ne more grešiti, ker je rojen iz Boga« (1 Jn 3,9).
Razlika med Adamom in novostjo, ki se začne s Kristusom, je resnično absolutna.
SEMENA je rubrika centra Aletti, ki je na voljo vsak petek ali soboto (v italijanščini že v petek). Vsak teden bo na spletni strani LIPE poleg nedeljske homilije v zvočni obliki (v italijanščini) na voljo tudi poglobitev Božje besede nedeljske ali praznične svete maše.