CHI AMA LA PROPRIA VITA LA PERDERÀ
+ Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.
Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna.
Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà».
Nei paesi dell’Europa centrale questa domenica (V domenica di Quaresima – Gv 12,20-33) è chiamata “della morte”. Tale appellativo è piú di origine pagana che cristiana. In questo giorno i bambini portavano una figura di paglia, chiamata “Morte”, e la gettavano nell’acqua di un fiume compiendo cosí un atto simbolico: l’inverno è passato, comincia la primavera, prepariamoci alla pasqua, festa della vita rinnovata. La conclusione, quindi, è cristiana, ma la logica è pagana: bisogna annientare la morte affinché vinca la vita. Non è cristiano? Approssimativamente. Cristo non ha gettato via la morte per poter vivere, ma è passato nella vita eterna proprio attraverso la morte. Solo cosí possiamo comprendere le parole del vangelo che altrimenti risultano strane: “Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna.” Chi vuol salvare la propria vita? Sembra una domanda retorica, è chiaro che “ogni uomo normale”. La salvezza della vita è uno dei piú fondamentali istinti di ogni vivente. E come si cerca di salvare la vita? Anche qui sembra vi sia un’unica risposta: “fuggendo la morte e tutto ciò che vi conduce”. Ci chiediamo allora: può il vangelo contraddire questa comune esperienza? Sarebbe contro la missione di Gesú che è venuto a portare la vita. Ma se deve portarla in modo definitivo, allora deve vincere il fondamentale nemico della vita, cioè la morte. I Padri della Chiesa paragonano Cristo ad un medico che è riuscito a curare l’ultima, inguaribile malattia. Perciò già durante la sua vita terrena risuscitò alcuni morti. Ma il suo metodo principale è l’applicazione di un noto principio stabilito da antichi medici: similia similibus curentur, per cui le malattie vengono curate con i veleni che le hanno causate. Secondo questo principio, la morte si curerà con la morte. È un linguaggio metaforico, perciò spinge alla riflessione.
Tutti amiamo la vita. In un certo senso lo conferma anche il suicidio. Chi si uccide, si priva della vita perché la sua esistenza concreta non corrisponde alla vita che ama. Vivere significa avere molte esperienze. Alcuni esagerano: viaggiano continuamente, fanno escursioni, leggono sempre nuovi libri, organizzano incontri. Le tante e nuove esperienze aumentano, ma alla fine iniziamo a perdere la vivacità, le cose che facciamo non ci entusiasmano piú, né ci eccitano, a poco a poco le dimentichiamo e alla fine non le cerchiamo piú. Succede quindi una cosa strana: in questi casi amare la vita significa che ciò che avrebbe dovuto riempirla perde lentamente di significato. Uomini che hanno vissuto cercando di sfruttare a pieno la vita alla fine dichiarano: mi sento svuotato.
Ma non tutti cercano nuove esperienze. Alcuni sapienti cercano la conoscenza, hanno imparato molte cose, ma vivono ugualmente una difficoltà. Conoscere significa conservare nella memoria, ma a poco a poco anche la memoria si indebolisce, le informazioni si perdono. Che cosa rimane dello scienziato di un tempo che oggi non si ricorda che cosa ha fatto ieri? Salvava la sua vita in modo nobile, ma l’ha perduta.
Ma c’è un altro modo di riempire la propria vita, ed è il modo migliore: riempire la propria vita con la carità, amando il proprio prossimo. Ma cosa significa amare? Vivere per un altro, pensare a chi è vicino, dimenticare se stessi. Dimen-ticare se stessi è come perdere la propria vita. Una donna che si è occupata dei suoi figli, senza avere tempo per altre esperienze, morendo a se stessa, è qualcosa di tragico? Guardando la situazioni con occhi profani è una tragedia. Gli esistenzialisti moderni definiscono la vita come un’esistenza per la morte. Diciamo che l’unica forza che dà la vita è l’amore, ma l’amore conduce anche alla morte perché esige il sacrificio.
Per uscire da questo circolo vizioso, c’era bisogno di un intervento superiore. Anche Cristo ha riempito la sua vita terrestre con l’amore e perciò è morto come tutti gli altri mortali. Ma il suo amore era divino, e perciò si è mostrato piú forte della morte. Ma questo va capito bene. Cristo non ci ha redenti per il solo fatto di essere morto, ma perché la sua morte è stata causata da un amore divino immortale. In unione con il suo amore, anche l’amore umano acquista un valore immortale.
Per entrare nella vita eterna non è sufficiente morire, bisogna morire con Cristo. Chi ama in modo cristiano muore in questo modo quotidianamente. Ogni giorno perde la vita e ogni giorno la salva per sé e per gli altri, risuscitando dai morti assieme al Risorto.
Un anziano medico omeopata ha molti pazienti. All’inizio quelli che vanno da lui sono spesso disorientati. Vogliono esporgli subito che cosa c’è che non va, che cosa fa loro male, per ricevere velocemente dei medicamenti che calmino il dolore. Lui però, come se non ascoltasse, chiede quando vanno a dormire, quando si alzano, che vita conducono, ecc. Alla fine fa capire che non vuole curare una malattia particolare, ma la persona intera e per curarla bisogna conoscere la sua vita. Dare al malato solo un calmante contro il dolore equivale a dare della droga. Per salvare l’uomo bisogna suscitare la sua vera forza vitale che poi da sola curerà la malattia.
Nella vita spirituale una tale forza vitale è l’amore per Cristo e in Cristo. Esso supera tutte le malattie spirituali e, alla fine, anche la morte, anche se apparentemente l’amore che si sacrifica conduce proprio lí.
L’usanza semipagana ricordata all’inizio rappresenta la morte con un fantoccio di paglia che va gettato nel fiume. È un’immagine della forza distruttrice dell’inverno. Al contrario, la morte cristiana si paragona al seme seminato nella terra, che conserva la sua forza vitale e che neanche l’inverno può distruggere.
Un autore paleocristiano di origine siriaca, i cui scritti si conservano sotto il nome dello pseudo-Macario, non vuol parlare della vita eterna come di una vita nuova che riceveremo soltanto dopo la morte. Afferma piuttosto che in realtà le due vite già ora coesistono. Dal giorno della nascita, noi perdiamo a poco a poco la vita terrena. Ma acquistiamo la vita eterna ogni giorno con ogni opera buona con Cristo. Questa vita eterna è collocata nel nostro cuore come la forza vitale di un seme. Quando, dopo l’inverno delle nostre morti terrene, arriverà la primavera divina con il sole eterno che è Cristo, dal seme crescerà una pianta con i fiori e i frutti dell’eterno paradiso.
L’immagine psicologica di questo mistero è sperimentata dai vecchi nei loro ricordi. I vecchi spesso sono a casa da soli, seduti per ore, senza piú interesse per le banalità che succedono attorno a loro. Non hanno esperienze di novità. Ma, se sono equilibrati in senso cristiano, ricordano sorridendo i tempi passati, li ricordano volentieri e con amore, e questo ricordo è per loro piú vivo di come sono stati quegli stessi fatti. L’amore li ha risuscitati. Questo accade solo psicologicamente. Ma nell’eternità ciò accadrà realmente e indelebilmente con Cristo, i cui pensieri e le cui azioni divino-umane sono indistruttibili.
IL VANGELO di tutto l’anno sono le riflessioni sul Vangelo festivo e feriale tratte dall’omonimo libro di padre Tomáš Špidlík.
Il libro è disponibile presso EDIZIONI LIPA |