Approfondimento delle letture della liturgia della V Domenica di Pasqua, Anno A
“Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (Gv 14,1).
Turbamento e fede si contraddicono e non possono coabitare nel cuore.
Se leggiamo i Salmi, i Libri sapienziali, o ancora prima il Deuteronomio, possiamo cogliere che il cuore nella Bibbia rappresenta tutta la persona.
È una specie di centralina dalla quale tutto parte e dove tutto confluisce: tutto ciò che l’uomo è, fa, pensa e desidera.
Il cuore ha gli “occhi” per vedere, in modo che si possa correttamente comprendere.
“Affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria… illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi” (Ef 1,17-18).
Il cuore che crede è abitato da Cristo e partecipa al suo occhio, al suo modo di vedere.
“Che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio” (Ef 3,17-19).
È interessante, perché per la fede si viene inabitati da Cristo e, quando Cristo abita nei nostri cuori, si arriva alla conoscenza dell’Amore che supera ogni conoscenza.
Per la fede, Cristo inabita il nostro cuore e questo lo si può vedere perché siamo “radicati e fondati nella carità” e uniti con gli altri. Solo insieme agli altri si conosce.
Se Cristo abita in noi è constatabile perché veniamo fondati nella carità, radicati in essa, perché cresciamo dalla carità.
Le nostre radici affondano nella carità. Questo ci unisce agli altri e insieme conosciamo.
Come diceva Solov’ëv, l’accesso alla verità è la comunione, perché la verità è comunionale.
Ciò vuol dire che la nostra esistenza è fondata nella comunione. Questo è abbastanza ovvio, perché siamo fondati in Dio che è Trinità, l’unità delle persone divine. Se siamo fondati in Dio, siamo fondati nella comunione trinitaria. Non si può essere fondati in Dio e avere la carità come mèta da raggiungere, come uno dei valori da conquistare. “Fondati in Dio” significa fondati nell’Amore e la nostra esistenza è chiamata a manifestare questo amore. Ma quando la fede non è inabitazione e fondazione della nostra vita nella carità e nell’unione con gli altri, diventa una religione, cioè una serie di regole che disciplinano la nostra relazione con Dio e con gli altri. È una religione che ci radica in noi stessi, che fa leva su di noi, sul nostro impegno. Poi, magari, ci sprona anche verso Dio e verso gli altri, ma sempre come un nostro impegno che si aspetta una remunerazione. La conoscenza si separa così dall’amore, si isola, diventa astratta e cerca nella propria metodologia la sua sicurezza. Si comincia allora sempre più a sottolineare il metodo da seguire nel pensare, perché da questo dipende tutto.
Invece di diventare un dono, la conoscenza si trasforma in una corazza dell’individuo, per farlo sentire importante e magari anche giustificato. Così dice Yannaras. E la religione, in questo senso, separa inevitabilmente la conoscenza dall’Amore.
Togliere dall’ontologia, cioè dalle fondamenta dell’esistenza la comunione vuol dire isolare la conoscenza dalla carità, vuol dire tradire la via della fede cristiana. Una tale impostazione svuota la fede in Cristo e fede in Padre. Tale impostazione non sa cosa farsene dallo Spirito Santo. Ma proprio lui è il Signore della comunione che dona la vita.
E questo isolamento della conoscenza dall’amore è successo – come tanti hanno constatato – in questi ultimi secoli.
Infatti oggi vediamo come la gente se ne va, perché stanca delle ideologie. Infatti, la via della religione si sposa con tutte le ideologie. E la gente si stanca di queste ideologie che facciamo susseguire a seconda del momento culturale.
Ma le ideologie non saziano, non ci fanno inabitare dall’Amore, non ci fanno inabitare negli altri e gli altri in noi.
Cristo infatti parla di dimorare (cf Gv 14,2). Cristo parla di “dimore” che sono nella casa del Padre.
La parola usata per dimore rimanda a rimanere. Si tratta di rimanere nella casa del Padre. E Cristo va a preparare questo rimanere nel Padre. Si tratta di un modo di essere l’uno nell’altro. Questo è il dimorare di cui parla Cristo. “Io sono nel Padre e il Padre è in me (Gv 14,10).
Ma Tommaso esplicita che non è così automatico per la mente umana cogliere questo mistero dell’esistenza.
“Dove vai?”, qual è la via per arrivare lì dove vai? (Cf Gv 14,5).
“Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6).
Ma come comprendere questo?
Nel Prologo, Giovanni lo aveva già anticipato, quando diceva che contemplando Cristo nella sua umanità appariva la verità (cf Gv 1,14). Verità nel senso del termine aletheia, cioè venire fuori dall’oblio, apparire dalla dimenticanza, venir fuori dalla dimenticanza. In Lui era sempre più manifesto un dono, una grazia: che Dio è Padre e l’uomo, in Cristo, si manifesta come figlio.
È la vita dell’Amore del Padre e del Figlio, che è ciò che Cristo fa vedere.
Ma come si vede la vita se non partecipando ad essa, se non vivendola? Non è possibile se non partecipando.
Si tratta di un contemplare dove questo dono tu lo accogli. Un dono che ci fa partecipare a Cristo amore con il Padre.
“Perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21).
Qui viene esplicitato che ciò che è l’esistenza, il modo di esistere uno nell’altro tra Padre e Figlio, viene esteso a di noi. Facendo parte di questo amore che ti fa abitare nell’altro, in Cristo, e con Cristo nel Padre e fa abitare l’altro in te, diventi anche tu parte della via, della verità e della vita.
Infatti se accogli lui e accogli ciò che lui manifesta – la figliolanza –, potrai diventare “figlio di Dio” (cf Gv 1,12).
Si tratta dell’Amore e l’Amore lo si riconosce anzitutto nell’accogliere, non nel dare.
Giovanni dice che non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ci ha amati per primo (cf 1Gv 4,10.19).
Dunque, si tratta di accogliere.
Da parte dell’uomo il primo gesto, il primo atto d’Amore è l’accoglienza del dono.
E questa accoglienza ti rende dono, tu accogli il Figlio di Dio e diventi figlio di Dio.
“Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23).
Cristo non è solo la via verso il Padre, ma anche porta il Padre in noi attraverso la nostra accoglienza della sua parola. E Lui è la parola.
Questa parola così bella – “dimora”, dimorare, cioè rimanere – indica la relazione tra Padre e Figlio.
Essere figli è abitare nella casa del Padre.
E quando noi accogliamo Cristo, il suo dono di sé nella sua umanità, Egli la impregna d’Amore, tanto che rimane tutta impregnata nell’Amore e perciò non può putrefare.
La morte non può avere potere su di essa, perché “l’amore rimane” (cf 1Cor 13,8).
Quando tutta l’umanità di Cristo viene penetrata, animata, mossa, bagnata, orientata, donata dall’Amore è il passaggio alla gloria, alla risurrezione dell’umanità stessa.
Allora questa umanità da risorta in Cristo vive presso il Padre nella gloria e noi rimaniamo là, siamo là.
Perché, se noi ci riconosciamo nella sua umanità e con il Battesimo veniamo innestati in questa umanità, noi siamo radicati là, dove c’è Cristo, nella gloria del Padre.
Noi qui viviamo la relazione filiale, che ci fa vivere la nostra umanità abitata, dunque vissuta da figli nel Figlio.
In Cristo abbiamo già le nostre radici di là, nel compimento, e allo stesso tempo viviamo qui la nostra umanità, da figli, nel dono di sé, perché così vive il Figlio.
Si vive questo dono perché non siamo soli e non abbiamo più paura, perché “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30).
Come dono di sé, come carità, si può vivere solo perché non siamo soli, perché dimoriamo in una relazione che regge tutto.
Anche quando tutto si è fatto buio, la terra tremava, Cristo era colpito col male del mondo, l’unica asse assolutamente ferma e sicura era la relazione tra Padre Figlio.
Questa relazione già al Battesimo, quando Gesù esce dal Giordano, viene indicato che è riempita dallo Spirito Santo che è l’Amore, il Signore della comunione.
Non esiste la separazione della conoscenza dall’amore e vedere vuol dire vedere con questo amore, vedere a partire dalla relazione.
Perciò chi vede Cristo vede il Padre (cf Gv 14,9), lo vede perché lui stesso è figlio, altrimenti non potrebbe vedere il Padre.
Il Padre conosce il Figlio e il Figlio conosce il Padre. E chi vede i cristiani, questi figli, vede la comunione nell’Amore.
Ma chi è dentro gli schemi ideologici non può cogliere tutto questo, addirittura gli può dare molto fastidio.
Infatti, i fratelli di Giuseppe decidono di ucciderlo perché è il figlio amato. Cristo, allo stesso modo, sarà ucciso perché il Figlio amato del Padre.
Il passo odierno è l’inizio del suo discorso di congedo.
SEMI è la rubrica del Centro Aletti disponibile ogni venerdì.
Ogni settimana, oltre all’omelia della domenica in formato audio, sarà disponibile sul sito LIPA un approfondimento delle letture della liturgia eucaristica domenicale o festiva.