Approfondimento delle letture della liturgia
Profundización de las lecturas de la liturgia
Poglobitev Božje besede
Nelle ultime omelie abbiamo visto come Paolo, nella Lettera ai Romani, svela il senso profondo della morte di Cristo.
Cristo è morto per noi “quando eravamo ancora peccatori” (Rm 5,8), ossia, quando “eravamo nemici di Dio” (Rm 5,10).
La sua morte ci ha riconciliati con Dio Padre, ci ha uniti con lui, ma ora è la sua vita che ci salva.
Infatti, Paolo aggiunge che saremo salvati mediante la sua vita, perché mediante la sua morte siamo stati riconciliati con il Padre (cf Rm 5,10).
Nel brano odierno Paolo lega in modo indissolubile la nostra vita nuova alla morte di Cristo.
La morte di Cristo è il luogo nel quale ci immerge il Battesimo. Si viene battezzati, si viene immersi in Cristo Gesù.
Durante l’immersione battesimale in greco si usa la preposizione eis che indica un moto a luogo, e il luogo è Cristo Gesù eis Christon Iesoun. Il Battesimo ci muove e ci immerge in Cristo Gesù. Questa è la direzione.
Come raggiungiamo questo luogo che è Cristo?
Qui c’è la novità assoluta.
Non certo col nostro correre verso, o col nostro camminare deciso, tanto meno con lo sforzo del nostro impegno, ma partecipando alla sua morte.
Infatti, viene detto che siamo stati immersi nella sua morte.
Qui è questo eis, (eis ton thanaton), questo moto a luogo, e il luogo è la morte di Cristo.
Dunque il nostro movimento non è verso il fare qualcosa, ma il morire con, non essere soli nella morte, ma con Cristo.
Anzi, la morte di Cristo diventa il luogo verso il quale ci muoviamo.
Cioè morire in modo simile a Cristo, essere partecipi del suo modo di morire. “Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte…” (Rm 6,5).
Com’è il suo modo di morire? È il dono di sé stesso, per amore.
“Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).
Il Padre “ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito”.
Il Figlio, al momento dell’ingresso nell’opera definitiva della salvezza, dice che sarà consegnato (cf Mt 20, 18) e che la vita “nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso” (Gv 10,18).
È proprio il dono di sé.
“Ha dato se stesso per i nostri peccati al fine di strapparci da questo mondo malvagio, secondo la volontà di Dio e Padre nostro” (Gal 1,4).
È un dono rivolto a qualcuno, consegnato a una persona concreta.
Non è un donarsi in senso generico e astratto, inconsistente, ma attraverso la relazione personale, con persone concrete.
Paolo infatti dice “che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20).
Ha amato proprio me e si è consegnato proprio per me e a me.
Questo apre una via da percorrere, partecipando a questo dono.
“Camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi” (Ef 5,2).
Questo dono dell’amore non è solo verso Dio, come risposta al suo amore, ma passa attraverso i fratelli.
Amore vuol dire donarsi agli altri. Non c’è conflittualità tra amare Dio e amare i fratelli, perché con il dono dell’amore cambia il senso della mia esistenza.
È proprio come dice la quarta preghiera eucaristica: “Che non vivessimo più per noi stessi, ma per lui che è morto e risorto per noi”.
Allora, si incontra Cristo da morti e lì si trova la nostra partecipazione alla sua persona: nel modo di morire, cioè, la nostra partecipazione al dono totale di sé nell’amore.
Non si incontra Cristo da bravi, da perfetti, da persone che compiono tutto ciò che si deve compiere, perché questo modo si sposa facilmente con l’uomo vecchio che cerca di salvare sé stesso, ed è pronto a fare di tutto per salvarsi.
Si incontra Cristo da morti, ed è proprio la morte accolta, accettata, scelta liberamente che ci fa scoprire il senso stesso della morte. La morte come luogo della suprema manifestazione dell’amore.
Ed è proprio questo che distrugge la morte, perché la morte di per sé azzera tutti i valori e tutte le cose, perché dà tutto questo in cibo ai vermi.
Ma Cristo manifesta che per lui la morte è la massima manifestazione dell’amore, del dono.
Non sono io il protagonista, perché questo io è morto, è stato crocifisso: “Sono stato crocifisso con Cristo e non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,19-20).
È attraverso la partecipazione alla morte di Cristo che si apre per me una via per camminare nella novità della vita, la quale mi ha raggiunto proprio attraverso la mia partecipazione alla morte di Cristo.
La morte di Cristo mi ha portato a una novità di vita.
Lo spazio della morte mi fa sperimentare la grandezza dell’amore, che è il dono di sé.
La novità della vita consiste nell’accoglienza del dono che a sua volta ti rende dono.
È questo modo di vivere sé stessi come dono per gli altri in Cristo che fa superare la morte.
L’unico modo per andare oltre la morte è avvolgere se stessi nell’amore e donarsi.
Si incontra Cristo da morti e non sulle vette della nostra bravura, delle nostre conquiste.
Perciò Paolo può dire con un paragone interessante: “come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare nella novità della vita” (Rm 6,4). Adesso si traduce “in una vita nuova”, che è esattamente l’amore, l’essere liberi da sé stessi per poter essere consegnati.
“Come Cristo fu risuscitato dai morti…, anche noi possiamo camminare nella novità della vita” (Rm 6,4).
Allora, la partecipazione alla sua morte ci fa partecipare a una esistenza nuova.
Quel “come” “così”…
Dal Battesimo ci si incammina nella novità della vita, cioè si comincia a vivere da Figli amati, quindi in grado di amare.
Siamo stati amati da Dio, quindi possiamo amare. Si può amare perché si è amati. Si può donare sé stessi perché Cristo si è donato a noi.
“In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10).
Dio ci ha amato donandoci il Figlio, quindi, in quanto amati, possiamo amare.
Finché non si vive l’esperienza di essere amati, si cerca solo di conquistare ciò che ci manca.
È curioso, perché guardando la nostra cultura degli ultimi secoli è facile constatare che l’asse centrale e portante è il progettarsi e elaborare la meta dell’ideale da raggiungere.
Dunque la nostra opera consiste nell’abbellire, nel perfezionare noi stessi e la società.
Raggiungere ciò che mi manca, desiderare ciò che mi manca, immaginare ciò che mi manca e pensare e programmare come raggiungerlo o almeno farlo apparire come se già lo si fosse raggiunto.
È la cultura dell’apparenza.
Anche la spiritualità non è molto diversa.
La stragrande maggioranza dei testi è tutta sulla stessa impronta: cosa devo fare per raggiungere ciò che mi manca.
Ciò che sembra assente in questi secoli è l’esperienza della morte di Cristo come luogo dove scopro la gloria del Padre e la mia radicale novità di vita da figlio amato.
“Da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati” (Ef 2,5).
Senza questa esperienza fondante – offrite voi stessi a Dio come viventi, ritornati dai morti e le vostre membra come strumenti di giustizia (cf Rm 6,13) – senza questa esperienza di essere “viventi ritornati dai morti”, senza questa conoscenza per esperienza, la fede diventa facilmente una religione pesante, che prima o poi suscita nella cultura, nella gente, un’onda di rifiuto e un bisogno di liberarsi da una tale religione.
Siamo testimoni anche di queste ondate culturali.
Anche se si cerca di condirla con un sentimentalismo devozionista, ci si radica ancora più in un io corazzato dalla devozione e dalla religione – come direbbe Yannaras – per salvare se stessi. L’inganno grave è che facilmente si cerca di abbellire, di perfezionare noi stessi, ma di fatto si lavora su quell’uomo che di per sé è già morto nel Battesimo. Invece di camminare “nella novità della vita”, ci si occupa continuamente di noi stessi, della nostra storia, di tutte le cose di quell’uomo che di fatto è già morto. La vita spirituale non sta nel correggere l’uomo vecchio morto nel battesimo, ma si tratta di vivere la vita dell’uomo nuovo.
Intanto, non riusciremo mai a risuscitare quell’uomo semplicemente secondo la natura, perché l’uomo nuovo è dello Spirito Santo. Solo possiamo immaginarlo più bravo, più buono, più perfetto degli altri, perché si senta a posto, grande e orgoglioso. E siamo capaci di forti mortificazioni, ma queste non riescono a spostarmi “in Cristo”, non riescono a farmi fare il passaggio espresso con quelle due preposizioni greche: da eis a en, “in Cristo”.
La persona di Cristo, Figlio di Dio, vero uomo, è il luogo da me abitato. In lui, in questo luogo, in questa persona di Cristo, insieme alle sorelle e ai fratelli io invoco “Abbà, Padre”, nei cieli (cf Ef 2,6).
SEMI è la rubrica del Centro Aletti disponibile ogni venerdì.
Ogni settimana, oltre all’omelia della domenica in formato audio, sarà disponibile sul sito LIPA un approfondimento delle letture della liturgia eucaristica domenicale o festiva.
En las últimas homilías hemos visto cómo Pablo en la carta a los Romanos desvela el sentido profundo de la muerte de Cristo. Cristo murió por nosotros “cuando éramos todavía pecadores” (Rom 5,8). Es decir, cuando éramos “enemigos de Dios” (Rom 5, 10). Su muerte nos ha reconciliado con Dios Padre, nos ha unido con él, pero ahora es su vida la que nos salva. De hecho, Pablo añade que seremos salvados mediante su vida porque mediante su muerte fuimos reconciliados con el Padre (Cf. Rom 5, 10).
En el pasaje de hoy Pablo une de un modo indivisible nuestra vida nueva a la muerte de Cristo. La muerte de Cristo es el lugar en el cual nos sumerge el bautismo, se es bautizado, se es inmerso en Cristo Jesús. Durante la inmersión bautismal en griego se usa la preposición “eis” que indica un movimiento a un lugar y el lugar es Cristo Jesús. “Eis Christon Iesoun” el bautismo nos mueve y nos sumerge en Cristo Jesús. Esta es la dirección. ¿Cómo alcanzamos este lugar que es Cristo? Aquí está la novedad absoluta. Seguramente no con nuestro correr hacia, o con nuestro caminar decidido, mucho menos con el empeño de nuestro esfuerzo, sino participando a su muerte. De hecho, se dice que fuimos inmersos en su muerte. Aquí está este “eis” (“eis ton thanaton”), este movimiento a un lugar, y el lugar es la muerte de Cristo.
Entonces, nuestro movimiento no es hacia el hacer una cosa, sino el morir con, no estar solos en la muerte, sino con Cristo. De hecho, la muerte de Cristo se convierte en el lugar hacia el cual nos movemos. Es decir, morir en un modo similar a Cristo, ser partícipes en su modo de morir “pues si hemos sido incorporados a él en una muerte como la suya…” (Rom 6,5). ¿Cómo es su modo de morir? Es el don de si mismo por amor. “Porque tanto amó Dios al mundo, que entregó a su Unigénito, para que todo el que cree en él no perezca, sino que tenga vida eterna” (Jn 3:16). El Padre “tanto amó al mundo que entregó a su Hijo Unigénito”. El Hijo, al momento de la entrada en la obra definitiva de la salvación, dice que será entregado (Cf. Mt 20,18) y que la vida “ninguno me la quita, sino que la entrego libremente” (Jn 10,18). Es justo el don de si mismo, “se entregó por nuestros pecados para librarnos de este perverso mundo presente, conforme al designio de Dios, nuestro Padre” (Gal 1,4). Es un don dirigido a alguien, entregado a una persona concreta. No es un donarse en sentido genérico y abstracto, inconsistente, sino a través de la relación personal, con personas concretas. Pablo, de hecho, dice que “me amó y se entregó por mi” (Gal 2,20). Me ha amado precisamente a mi, y se ha entrega precisamente por mi y a mi. Esto abre un camino por recorrer participando a este don. “Caminad en la caridad en el modo en el cual también Cristo nos ha amado y se ha dado a si mismo por nosotros” (Ef 5,2). Este don del amor no es solo hacia Dios como respuesta a su amor, sino que pasa a través de los hermanos. Amor quiere decir donarse a los demás, no hay un conflicto entre amar a Dios y amar a los hermanos porque con el don del amor cambia el sentido de mi existencia. Es precisamente como dice la cuarta oración eucarística: “que no vivamos más para nosotros mismo, sino para aquel que murió y resucitó por nosotros”. Entonces, nos encontramos con Cristo participando en su modo de morir, que es el don total de si mismo en el amor.
No se encuentra a Cristo porque seamos grandes, perfectos, personas que cumplen todo aquello que se debe hacer, porque este modo se casa fácilmente con el hombre viejo que busca salvarse a si mismo y está dispuesto a hacer lo que sea para salvarse. Se encuentra a Cristo estando muertos, y es precisamente la muerte acogida, aceptada, escogida libremente, que nos hace descubrir el sentido mismo de la muerte. La muerte como el lugar de la suprema manifestación del amor. Y es precisamente esto lo que destruye la muerte porque la muerte por si misma destruye todos los valores y todas las cosas porque da todo esto a comer a los gusanos. Pero Cristo manifiesta que, para él, la muerte es la máxima manifestación del amor, del don. No soy o el protagonista porque este yo esta muerto, fui crucificado: “fui crucificado con Cristo, y no vivo más yo, sino Cristo que vive en mi” (Gal 2,19-20). Es, a través de la participación a la muerte de Cristo, que se abre para mi un camino por recorrer en la novedad de la vida, la cual me ha alcanzado precisamente por medio de mi participación a la muerte de Cristo.
La muerte de Cristo me ha llevado a una novedad de vida. El espacio de la muerte me hace experimentar la grandeza del amor que es el don de si mismo. La novedad de la vida consiste en la acogida del don que a su vez te hace don. Es este modo de vivir en Cristo como don para los demás que hace superar la muerte. El único modo para ir más allá de la muerte es dejarse envolver por el amor y donarse. Se encuentra a Cristo estando muertos y no en las alturas de nuestras proezas y conquistas. Por eso, Pablo puede decir con una comparación interesante: “como Cristo fue resucitado de los muertos por medio de la gloria del Padre, así también nosotros podemos caminar en la novedad de la vida” (Rom 6,4). Entonces, se traduce “en una vida nueva”, que es exactamente el amor, el ser libre de si mismo para entregarse. “Como Cristo fue resucitado de los muertos…, también nosotros podemos caminar en la novedad de la vida” (Rom 6,4). De este modo, la participación a su muerte nos hace participar a una existencia nueva. Aquel “como”, “así”…
A partir del bautismo nos encaminamos en la novedad de la vida, es decir, se comienza a vivir como hijos amados, por tanto, en grado de amar. Fuimos amados por Dios, por lo tanto, podemos amar. Se puede amar porque se es amado. Nos podemos entregar porque Cristo se entregó a nosotros. “En esto consiste el amor: no en que nosotros hayamos amado a Dios, sino en que él nos amó y nos envió a su Hijo como víctima de propiciación por nuestros pecados” (1Jn 4,10). Dios nos ha amado donándonos al Hijo, es decir, como somos amados podemos amar. Hasta que no se vive la experiencia de ser amados, se busca solo conquistar aquello que nos falta. Es curioso, porque viendo nuestra cultura de los últimos siglos es fácil constatar que el eje central es el proyectarse y elaborar la meta del ideal por alcanzar. Es decir, nuestra obra consiste en el embellecer, en el perfeccionarnos a nosotros mismos y a la sociedad.
Alcanzar aquello que me falta, desear aquello que me falta, imaginar aquello que me falta, y pensar y programar cómo alcanzarlo, o al menos dar la apariencia de como si ya lo hubiese alcanzado. Es la cultura de la apariencia. Incluso la espiritualidad no es muy diversa, la gran mayoría de los textos está toda basada sobre la misma impronta: qué debo hacer para alcanzar aquello que me falta. Lo que parece ausente en estos siglos es la experiencia de la muerte de Cristo como lugar donde descubro la gloria del Padre y la novedad radical de mi vida como hijo amado. “Estando nosotros muertos por los pecados, nos ha hecho revivir con Cristo: estáis salvados por pura gracia” (Ef 2,5).
Sin esta experiencia fundacional -“ofreceos a Dios como quienes han vuelto a la vida desde la muerte y poned vuestros miembros como instrumentos de justicia” (cf. Rom 6,13)- sin esta experiencia de ser “vivientes que han vuelto de la muerte”, sin este conocimiento experiencial, la fe se convierte fácilmente en una religión pesada, que antes o después suscita en la cultura, en la gente, una ola de rechazo y una necesidad de liberarse de una tal religión. Y hemos sido testimonios de estas olas culturales.
Incluso si se busca condimentarla con un sentimentalismo devocionista, nos enraizamos todavía más en un “yo” blindado por la religión y la devoción -como diría Yannaras- para salvarse a si mismo. El gran engaño es que fácilmente buscamos embellecernos y perfeccionarnos, pero, de hecho, se trabaja sobre aquel hombre que de por si ya había muerto en el bautismo. En vez de caminar en “la novedad de la vida”, nos ocupamos continuamente de nosotros mismos, de nuestra historia, de todas las cosas de aquel hombre que de hecho ya está muerto. La vida espiritual no está en corregir el hombre viejo muerto en el bautismo, sino que se trata de vivir la vida del hombre nuevo.
De todos modos, no lograremos jamás resucitar a aquel hombre simplemente según la naturaleza porque el hombre nuevo es del Espíritu Santo. Solo podemos imaginarlo más genial, más bueno, más perfecto que los demás, para sentirse satisfecho, grande y orgulloso. Y somos capaces de fuertes mortificaciones, pero estas no son capaces de llevarme a Cristo, no son capaces de hacerme realizar la transición expresada con aquellas dos preposiciones griegas: de eis a en, “en Cristo”.
La persona de Cristo hijo de Dios, verdadero hombre, es el lugar habitado por mi. En él, en este lugar, en esta persona de Cristo, junto con las hermanas y hermanos yo invoco “Abba Padre”, en los cielos (Cf. Ef 2,6).
SEMILLAS es una publicación del Centro Aletti disponible todos los viernes. Cada semana, además del audio de la homilía dominical, estará disponible en el sitio de LIPA un comentario a las lecturas de la Liturgia del Domingo, como así también a las lecturas de la semana.
V zadnjih poglobitvah Božje besede smo videli, kako Pavel v Pismu Rimljanom odkrije globok smisel Kristusove smrti.
Kristus je umrl za nas, »ko smo bili še grešniki« (Rim 5,8), oziroma, ko »smo bili še sovražniki Boga« (Rim 5,10).
Njegova smrt nas je spravila z Bogom Očetom, združila nas je z njim, sedaj pa nas rešuje njegovo življenje.
Pavel namreč doda, da bomo rešeni po njegovem življenju, saj smo se po smrti njegovega Sina spravili z Očetom (prim. Rim 5,10).
V današnjem odlomku Pavel naše novo življenje neločljivo poveže s Kristusovo smrtjo.
Krst nas potopi v Kristusovo smrt. Krščeni smo, potopljeni smo v Kristusa Jezusa.
Med krstno potopitvijo se v grščini uporablja predpona eis, ki označuje premik na kraj, kraj pa je Kristus Jezus: eis Christon lesoun. Krst nas premakne in potopi v Kristusa Jezusa. To je smer.
Kako dosežemo ta kraj, ki je Kristus?
Tu gre za popolno novost.
Zagotovo ga ne dosežemo s tekom tja, niti z odločno hojo, še manj s trudom in naprezanjem, ampak z udeleženostjo pri njegovi smrti.
Povedano je namreč, da smo potopljeni v njegovo smrt.
Tukaj je ta eis, (eis ton thanaton), to gibanje na nek kraj, in kraj je Kristusova smrt.
Naš premik torej ni v tem, da nekaj naredimo, ampak, da umremo z nekom; da v smrti nismo sami, ampak smo s Kristusom.
Še več: Kristusova smrt postane kraj, proti kateremu se gibljemo.
To pomeni, da umremo podobno kot Kristus, da smo deležni njegovega načina umiranja. »Če smo namreč z njim zraščeni v podobnosti njegove smrti…« (Rim 6,5).
Kakšen je njegov način umiranja? Darovanje samega sebe iz ljubezni.
»Bog je namreč svet tako vzljubil, da je dal svojega edinorojenega Sina, da bi se nihče, kdor vanj veruje, ne pogubil, ampak bi imel večno življenje« (Jn 3,16).
Oče »je svet tako vzljubil, da je dal svojega edinorojenega Sina.«
Ko je Sin vstopil v dokončno delo odrešenja, je rekel, da bo izročen (prim. Mt 20,18) in da mu življenja »nihče ne jemlje, ampak ga daje sam od sebe« (Jn 10,18).
Gre za podaritev samega sebe.
»Je daroval sam sebe za naše grehe, da bi nas iztrgal iz sedanjega pokvarjenega sveta, kakor je hotel naš Bog in Oče« (Gal 1,4).
Gre za dar, ki je nekomu namenjen, ki je izročen določeni osebi.
Ne gre za neko splošno in abstraktno darovanje, brez osnove, ampak za darovanje preko osebnega odnosa s konkretnimi osebami.
Pavel namreč reče: »ki me je vzljubil in daroval zame sam sebe« (Gal 2,20).
Prav mene je ljubil in prav zame in meni se je izročil.
To odpira pot hoje, na kateri smo udeleženi pri tem daru.
»Živite v ljubezni, kakor je tudi Kristus vzljubil nas in je daroval sam sebe za nas« (Ef 5,2).
Ta dar ljubezni ni samo do Boga, kot odgovor na njegovo ljubezen, ampak gre preko bratov.
Ljubiti pomeni darovati se drugim. Med ljubeznijo do Boga in ljubeznijo do bratov ni nobenega nasprotja, kajti z darovanjem iz ljubezni se spremeni smisel mojega obstoja.
Tako kot pravi četrta evharistična molitev: »Da ne bi živeli več sebi, ampak njemu, ki je umrl in vstal za nas.«
Tako srečamo Kristusa kot mrtvi in tam najdemo svojo udeleženost pri njegovi osebi: v načinu umiranja, se pravi udeleženi smo pri popolni podaritvi sebe v ljubezni.
Kristusa ne srečamo kot pridni, popolni, kot ljudje, ki izpolnijo vse, kar je treba izpolniti, kajti ta način se zlahka ujema s starim človekom, ki si prizadeva rešiti samega sebe in je pripravljen storiti vse, samo da se reši.
Kristusa srečamo kot mrtvi. In prav v smrti, ki jo sprejmemo in svobodno izberemo, odkrijemo smisel smrti. Smrt kot kraj najvišjega razodetja ljubezni.
Prav to uniči smrt, kajti smrt sama po sebi izniči vse vrednote in vse stvari, saj jih da v jed črvom.
Kristus pa razodene, da je zanj smrt največji izraz ljubezni, daru.
Nisem jaz protagonist, kajti ta jaz je umrl, bil je križan: »Skupaj s Kristusom sem križan; ne živim več jaz, ampak Kristus živi v meni« (Gal 2,19-20).
Ko sem udeležen pri Kristusovi smrti, se mi odpre pot hoje v novosti življenja, ki sem ga prejel prav preko svoje udeleženosti pri Kristusovi smrti.
Kristusova smrt me je pripeljala do novosti življenja.
Prostorje smrti mi omogoča, da izkusim veličino ljubezni, ki je darovanje samega sebe.
Novost življenja je v sprejetju daru, ki te v zameno naredi za dar.
Ko človek živi svoje življenje v darovanju sebe za druge v Kristusu, premaga smrt.
Edini način, da gremo preko smrti je, da se zavijemo v ljubezen in se darujemo.
Kristusa srečamo kot mrtvi in ne na vrhuncu svoje pridnosti in svojih dosežkov.
Zato lahko Pavel poda zanimivo primerjavo: »da bi prav tako, kakor je Kristus v moči Očetovega veličastva vstal od mrtvih, tudi mi stopili na pot novosti življenja« (Rim 6,4). Sedaj je prevedeno »novosti življenja« in prav to je ljubezen, biti svoboden samega sebe, da se lahko izročiš.
»Da bi prav tako, kakor je Kristus … vstal od mrtvih, tudi mi stopili na pot novosti življenja« (Rim 6,4).
Udeleženi smo pri njegovi smrti, zato smo deležni tudi novega bivanja.
Ta »prav tako, kakor« …
Po krstu začnemo hoditi v novosti življenja, to pomeni, da začnemo živeti kot ljubljeni otroci. In ker smo od Boga ljubljeni, smo sposobni ljubiti. Ker smo ljubljeni, lahko ljubimo. Ker se nam je Kristus daroval, se lahko tudi mi darujemo.
»Ljubezen je v tem – ne v tem, da bi bili mi vzljubili Boga. On nas je vzljubil in poslal svojega Sina v spravno daritev za naše grehe« (1 Jn 4,10).
Bog nas je ljubil tako, da nam je podaril Sina. Ker smo tako ljubljeni, lahko ljubimo.
Dokler ne izkusimo, da smo ljubljeni, samo iščemo, kako bi dobili to, kar nam manjka.
Ko se ozremo po zadnjih stoletjih naše kulture, je zanimivo, kako hitro opazimo, da je središčna in temeljna os načrtovanje in izdelava ideala, ki ga je treba doseči.
Naše delo je torej v olepševanju in izpopolnjevanju nas samih in družbe.
Doseči to, dar mi manjka, želeti to, kar mi manjka, predstavljati si, kar mi manjka, razmišljati in načrtovati, kako to doseči ali vsaj pokazati, kakor da smo že dosegli.
To je kultura videza.
Tudi duhovnost ni kaj dosti drugačna.
Velika večina besedil se osredotoča na to, kaj moram narediti, da bi dosegel to, kar mi manjka.
Zdi se, da je to, kar v teh stoletjih manjka, prav izkušnja Kristusove smrti kot kraja, kjer odkrijem Očetovo veličastvo in svojo radikalno novost življenja kot ljubljenega otroka.
»Čeprav smo bili zaradi prestopkov mrtvi, nas je skupaj s Kristusom oživil – po milosti ste bili namreč odrešeni« (Ef 2,5).
Brez te temeljne izkušnje – izročiti sami sebe Bogu kot ljudje, ki so prešli od smrti v življenje, in svoje ude kot orodje pravičnosti (prim. Rim 6,13) – brez izkušnje, da smo »živi, ki smo prešli od smrti«, brez tega spoznanja iz izkušnje, vera hitro postane obremenjujoča religija, ki prej ali slej v kulturi in ljudeh prebudi odpor in potrebo, da se osvobodijo take religije.
Priče smo tudi tem kulturnim valovom.
Čeprav jo skušamo začiniti s pobožnjaškim sentimentalizmom, si vse bolj nadevamo oklep pobožnosti in religije, da bi rešili sami sebe, kot bi rekel Yannaras. Olepšujemo se in izpopolnjujemo sami sebe, vendar je to huda prevara, saj je ta človek že umrl v krstu. Namesto da bi hodili »v novosti življenja«, se stalno ukvarjamo s seboj, s svojo zgodovino, z zadevami človeka, ki je dejansko že umrl. Duhovno življenje ni v popravljanju starega človeka, ki je umrl pri krstu, ampak je življenje novega človeka.
Nikoli ne bomo mogli obuditi človeka po naravi, kajti novi človek je človek Svetega Duha. Lahko si ga samo zamišljamo boljšega, bolj dobrega, popolnejšega od drugih, ker se čuti na mestu, velik in nadut. Zmoremo se močno zatajevati, vendar nas to zatajevanje ne more prestaviti »v Kristusa«, ne more nam omogočiti prehoda, ki je izražen s tema dvema grškima predlogoma: od eis k en, »v Kristusa«.
Kristusova oseba, Božji Sin, resnični človek je prostorje, v katerem prebivam. V njem, v tem prostorju, v tej osebi Kristusa, skupaj s sestrami in brati kličem »Aba, Oče«, ki si v nebesih (prim. Ef 2,6).
SEMENA je rubrika centra Aletti, ki je na voljo vsak petek ali soboto (v italijanščini že v petek). Vsak teden bo na spletni strani LIPE poleg nedeljske homilije v zvočni obliki (v italijanščini) na voljo tudi poglobitev Božje besede nedeljske ali praznične svete maše.